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  • Immagine del redattoreAndrea Dallapina

Giornosofia 6 - U come Umanità

Restiamo umani, si sente ripetere di fronte alle emergenze: guerre, naufragi, carestie ed epidemie. Restare umani. Ma quando lo siamo diventati e cosa significa esserlo?

Il nostro abbecedario di Giornosofia procede a ritroso e arriva alle lettera U come Umanità.

Umanità ha un duplice significato: è l’insieme degli esseri umani, l’intero genere umano, ma indica anche le caratteristiche che rendono tali, “trattare con umanità”.


Questo ci dice che il concetto di umanità è precedente alla genetica, anche quando non si sapeva cosa fossero i cromosomi, i nostri antenati si riconoscevano come appartenenti all’umanità, a un unico genere con caratteristiche simili.

Si è trattato di un processo per inclusione. Prima eravamo il nostro clan, poi il nostro villaggio, il nostro popolo, poi il nostro regno, il nostro impero, e così ecco che, "anche se sono diversi, anche se vivono con l’anello al naso", l’uomo occidentale ha poi deciso che tutti erano umani, tutti avevano un'anima (ma anche altri imperi nel corso della Storia hanno adottato lo stesso principio inclusivo, in modo più o meno coercitivo).


Un nobile gesto rispetto a uccidere o ridurre in schiavitù il nemico? Può darsi, anche se nasconde la volontà di potenza di ridurre l’altro a un’identità che non ha scelto. Inoltre anche nelle democratiche inclusioni c’è sempre un resto, una comunità tollerata ma non considerata: il paria, l’intoccabile, l’homeless, o che non vuole essere considerata, la setta.

Fatto sta che nell’era della globalizzazione siamo tutti umani, ci ammaliamo degli stessi mali, commerciamo con tutti e abbiamo un immaginario sempre più condivisibile, dall’Alaska alla Malaysia (guardiamo le stesse serie tv, ascoltiamo la stessa musica, ecc.).

Eppure, di questi oltre 7 miliardi di co-umani, parliamo abitualmente con qualche decina, sappiamo chi sono qualche centinaio (i più social e amanti del gossip possono arrivare a qualche migliaio). Il resto dell’umanità sono numeri o nomi scritti da qualche parte. Volti che incrociamo in un viaggio d’affari o di piacere. Eppure ci sentiamo umani come loro.


Perché? Perché, come abbiamo detto la volta scorsa, fantastichiamo, nel senso che siamo in grado di immedesimarci in loro. Se leggiamo di una tragedia che colpisce una famiglia a Oslo o una comunità a Lima, proviamo empatia perché pensiamo alla sofferenza che si può provare, anche se non l’abbiamo mai provata. E anche se ci fossimo trovati in una simile situazione, come possiamo sapere che gli altri provano ora le nostre stesse emozioni? Perché l’hanno già descritto i poeti?

Quello che ci dà la possibilità di parlare per conto dell’umanità, di dire non è giusto oppure sì, si deve far così, è questa capacità mimetica che abbiamo, quella di usare la nostra fantasia nell’immaginarci al posto di. E questo perché noi siamo dotati di linguaggio, capacità di rappresentazione di ciò che non è presente, come dicevamo l'altra volta. Se non ci fosse questo presupposto nessun dialogo, legge, dibattito o regola potrebbe nascere. Se prendessimo atto che nessuno può sapere cosa prova o motiva un’altra persona, può insomma entrare nella testa altrui, saremmo condannati al silenzio.


Per questo l’umanità, riprendendo le parole di Beckett citate in Giornosofia 2, deve andare avanti anche nel silenzio. Perché se ci fermassimo al silenzio, nel silenzio non lo sai. E allora ecco il linguaggio (dai segni alle parole, dalle immagini ai suoni), quello strano strumento che ci costituisce, il nostro grande inconscio, tanto che si può dire che noi siamo parlati, più che parliamo; partecipiamo a qualcosa di cui non dettiamo le regole e che ha anche regole sempre in evoluzione.

Ed eccoci all’esercizio di oggi chiedete a una persona di dedicarvi un minuto del suo tempo. Fatela sedere, poi guardatela, giratele attorno, sedetevi davanti, fate come meglio credete per entrare nella sua testa. Poi provate a scrivere secondo voi quali pensieri, emozioni o sensazioni ha avuto in quel minuto, e chiedete anche all’altro di fare lo stesso (scrivere quello che lui o lei hanno provato, pensato, ecc.). Alla fine confrontate le due versioni.

Bene, abbiamo parlato di umanità. C’è però anche un altro senso nel quale si usa umano e umanità, e cioè il non essere divini. L’avere dei limiti, essere mortali, legati a un corpo e alle esperienze che questo consente. Inizieremo a parlarne la prossima volta.


Il video di Giornosofia 6, più o meno le stesse cose dette alla videocamera



Il podcast di Giornosofia 6 - U come Umanità lo trovate qui assieme agli altri



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