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Giornosofia 20 - E come Esilio

  • Immagine del redattore: Andrea Dallapina
    Andrea Dallapina
  • 26 giu 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 29 ott 2020

La Giornosofia arriva alla E come Esilio. Alla F ci siamo occupati della Felicità o, per meglio dire della ricerca della felicità. La questione è: perché il nostro orizzonte è essere consegnati a un cammino, a un divenire, a una ricerca (della felicità)? Una possibile risposta è: perché la nostra condizione esistenziale, in quanto esseri umani, è quella dell’esilio.


Attenzione, l’esilio non come punizione, cacciata, frutto di un atto di volontà, e così via. La credenza in questo tipo di esilio è quella che genera il mito dell’origine, dell’inizio, della purezza (e che storicamente ha sovente portato a elaborare e praticare ideologie manichee: noi siamo i puri, siamo angeli caduti, c’è stata un'età dell’oro, e prima era meglio, e così via).

No, il nostro essere in esilio nasce come conseguenza dell’evento, cioè dal fatto che il nostro incontro con il mondo è sempre frutto di esperienze che lo costituiscono e ci costituiscono. La cosa sulla quale la filosofia s’interroga da millenni, l’inafferrabile essenza della cosa è data dal fatto che noi e la cosa esistiamo solo all’interno di una relazione. Anche se so, suppongo, che questa mela o la persona che ho di fronte esistevano anche prima del nostro incontro, è solo da questo incontro, che io sperimento la cosa e le mie possibilità su di essa, oppure che io scopro, nel caso di un altro soggetto, la sua esistenza e le mie possibilità d’interazione con esso. Questo incontro però crea un rimbalzo, mi rende esule, nel senso etimologico di fuori dalla (propria) terra. Il fatto è che quella (propria) terra non c'è mai stata, viene creata a ritroso, a posteriori.

In questo senso siamo sempre gettati nel mondo (per utilizzare la celebre espressione heidegerriana), non solo perché non abbiamo deciso di nascere, ma anche perché siamo sempre esiliati, impossibilitati a conoscere al di là della nostra esperienza mondana (anche quello che apprendiamo e di cui non abbiano esperienza diretta lo conosciamo attraverso la frequentazione di mediatori: insegnanti, docenti, giornalisti, scienziati, divulgatori, ecc., attraverso le loro parole o le intelligenze artificiali che hanno realizzato).

Questi passaggi filosofici ostici sono necessari per acquisire una prospettiva che non ci faccia vivere il distacco tra noi e gli altri, tra noi e le cose, come un dispetto o una sventura, ma come la condizione per. Se non ci fosse questo evento, questo esilio, se non ci fosse da sempre una condizione di due nel nostro rapportarci con il mondo, non esisteremmo nemmeno come soggetti, saremmo compresi, annullati in un indistinto e infinito uno dove un metro vale quanto migliaia di chilometri, perché nell’infinito tutte le misure, tutte le distanze, tutte le le differenze sono uguali.

Il punto è che siamo sempre gettati nel due anche nella nostra mente. L’esilio è sempre anche in noi stessi e da noi stessi. Quando pensiamo, cioè quando agiamo in modo riflessivo o critico, portiamo il dialogo al nostro interno. Di fronte a scelte morali, di vita, ma anche quotidiane: sono in auto, lo supero o non lo supero, sono sul marciapiede, lo saluto o non lo saluto, c’è dentro di noi un dibattito, una mente duale che porta giustificazioni a una scelta oppure a un’altra. Sentiamo di doverci giustificare con noi stessi. Il pensiero non è un atto puro, è sempre mediato, è sempre un pensare dall’esilio (l’esilio del linguaggio, detto per inciso) e non dal centro o dal cuore del mondo (e talvolta non è nemmeno questo dibattito a deciderci, ma qui apriremmo un altro lungo capitolo).


Praticare un esercizio che ci alleni alla presa di coscienza di questa condizione non è semplice. Se riuscite, prendetevi dieci minuti e scegliete il primo pensiero che vi viene in mente, fosse anche: mi piacciono le ciliegie. Qualcosa che vi sembra naturale, che non ricordate di avere letto o appreso. E iniziate a pensare. Quando ho deciso che mi piacciono le ciliegie? Mi sono sempre piaciute? Chi me le ha fatte assaggiare la prima volta? E, si potrebbe, andare avanti continuando a interrogarsi sul nostro incontro con le ciliegie. E poi provando a mangiarle bendati. Mi piacciono di più o di meno? Posso descrivere cosa mi piace? E se lo descrivo, qualcosa mi sfugge ancora? Questa sorta di epochè, di sospensione del giudizio sui nostri pensieri comuni, può essere un piccolo viaggio per intuire e accettare la condizione dell’esilio. Non c’è alcuna ciliegia originaria che abbiamo perduto, ogni ciliegia è sempre la stessa nuova ciliegia.


Il video di Giornosofia 20, più o meno le stesse cose dette alla videocamera.


Il podcast di Giornosofia 20 - E come Esilio lo trovate qui assieme agli altri.

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