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  • Immagine del redattoreAndrea Dallapina

Giornosofia 12 - O come Oasi

Giornosofia arriva alla O come Oasi, continuiamo così a parlare di percezione dello spazio.

La parola "oasi" deriva dal greco oasis e, secondo alcuni dizionari etimologici, avrebbe origine dall’egiziano, in particolare da uah (abitazione, luogo abitato).

Prendiamo per buona questa ricostruzione. Dunque l’oasi è un luogo abitato. Se percorri il deserto, il più grande labirinto del mondo, come avrebbe detto Borges, è importante sapere dove sono i luoghi abitati, servono per poter fare una sosta, trovare un riparo, e poi se ci abitano ci sarà acqua e magari cibo.


Oggi associamo comunemente all’oasi l’idea di un luogo incontaminato, vergine. Ciò è frutto di una lunga tradizione di narratori occidentali che hanno romanzato viaggi esotici a partire dal Sette-Ottocento, sino ad arrivare ai film hollywoodiani alla Paradise. Per esempio le Oasi del Wwf indicano aree preservate dall’intervento umano, dove non si abita, non si costruisce, si lasciano in pace gli animali e la natura (o almeno così si vorrebbe).

Invece, all’origine "oasi" indica la civiltà, il luogo abitato, la presenza umana nel deserto. Ovviamente ciò è possibile perché la mera vita, la zoé, vince sulle lande sabbiose, ma l’elemento di valore significativo, etimologicamente, è l’essere abitato.

Un interessante ribaltamento semantico. Oggi che l’emergenza Covid-19 ha desertificato le nostre città, forse comprendiamo maggiormente il vecchio significato di oasi. Lo sono diventati i supermercati o le poche attività commerciali rimaste aperte. E vorremmo ce ne fossero altre, di oasi, cioè posti in cui poter dire luogo abitato (e aperto).


Perché l’altro aspetto dell’oasi è la sua apertura, l’oasi non ha mura, bastano chilometri di deserto attorno a difenderla. E d’altronde quei pochi viaggiatori che vi transitano non possono essere lasciati in balia del deserto. L’oasi è sinonimo di ospitalità perché segue la legge del faccio al prossimo quello che vorrei fosse fatto a me. So quanto è difficile attraversare il deserto e senza il ristoro di un’oasi so che non ce la si può fare.

Ecco un altro paradosso, il luogo più isolato è quello più aperto, mentre spesso sono i luoghi più affollati a essere i più sorvegliati.


Eppure al concetto di oasi è associato anche quello di pace e tranquillità. Una tranquillità che deriva proprio dal non avere attorno alcuno, dall’abitare in pochi in un luogo delimitato. Oggi che causa l’epidemia anche noi siamo isolati, ci sentiamo tranquilli? viviamo in un’oasi? Certamente no, poiché, seppure isolati, nelle case o negli appartamenti vicino a noi vivono altri, percepiamo di non essere soli (e soprattutto sappiamo di avere un possibile ospite invisibile: il virus).


Quale esercizio filosofico vi propongo di prendere un foglio e dividerlo in due. Da un lato scrivete cosa rende la vostra casa un’oasi, nel senso di luogo di pace, tranquillità, riparato ma anche aperto e ospitale. Dall’altro quello che invece lo avvicina a un deserto, mancanza di vita, di punti di riferimento, senso di vuoto.


A volte ci dimentichiamo che le nostre case sono luoghi abitati, e cioè dove vi è consuetudine (l’etimologia di "abitare" riporta al significato di continuare ad avere). La consuetudine è rassicurante, l’essere umano di natura è abitudinario, ha bisogno di stabilità, ma occorre sempre fare attenzione: la consuetudine che pratichiamo potrebbe anche riempire di sabbia la nostra oasi.


Alla prossima puntata di Giornosofia, arriveremo alla N.


Il video di Giornosofia 12, più o meno le stesse cose dette alla videocamera.



Il podcast di Giornosofia 12 - O come Oasi lo trovate qui assieme agli altri.

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