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  • Immagine del redattoreAndrea Dallapina

About my generation

Previsto un sabato con possibili piogge sull’Alto Piemonte, domenica asciutto e parzialmente nuvoloso. Il barometro del giovedì è invece segnato dal tema: generazioni.


Quando il dibattito langue, dal sociologo al commentatore seriale, passando per politici e colleghi giornalisti, il tema generazionale, inteso come inquadrare le questioni in termini anagrafici, è un evergreen, non passa mai di moda.


I comportamenti culturali o di mercato, il vandalismo o la disoccupazione, non c’è strada migliore che buttarla in: “è un problema generazionale”.


Gli Who cantavano I hope I die before I get old. Talkin’ about my generation. (Spero di morire prima di diventare vecchio. Parlando della mia generazione). Ebbene la generazione degli Who (i baby boomers) non solo è diventata vecchia in gran numero (e in molti casi ancora arzilla come dimostrano gli stessi Who, sempre siano lodati, che continuano a far concetti a 70 e passa anni, anche se sul campo hanno lasciato batterista e bassista originari), ma è anche salita al potere, ha soppiantato i “vecchi freddi" che contestava.


Il problema è: quando si dice che una generazione è andata al potere cosa significa? Cos’ha e cosa aveva Bill Clinton (classe 1946) in comune con i suoi coetanei ora in pensione, o con Mario Draghi (classe 1947)?


Intendo dire: cos’ho in comune con i miei compagni dell’asilo o delle elementari? Che ci ricordiamo tutti più o meno le stesse sigle dei cartoni animati e nessuno tifa per la Pro Vercelli? O cosa mi accomuna con i nati negli anni Settanta in Italia, in Europa, in Asia o in America? Elenchi di oggetti che ora non ci sono più e che vanno bene per prendere like.


Ho sempre l’impressione che si sbandieri la questione generazionale per sminuire o assolvere (non è merito tuo, è che sei nato in quel periodo o per contro: non è colpa tua, è che sei nato in quel periodo) o per esaltare (noi coscritti siano i migliori, perché noi sì che ne abbiamo viste). Un po' luogo comune, un po' mito.


Certo, nessun uomo è un’isola e ognuno di noi è figlio del suo tempo, della sua famiglia, dei suoi amici, delle scuole che ha frequentato, ecc. E per l’attuale generazione di studenti gli effetti della Dad saranno un comune denominatore.


Però ognuno è figlio della sua generazione a suo modo e a volte il modo è più simile a quello di chi è nato venti anni prima o dopo, rispetto a chi è nato nel tuo stesso anno.


Il marketing l’ha capito da tempo e, ormai, non si occupa più di parlare a target o segmenti, ma alle personas, cioè a identikit di età, genere, professione, cultura e gusti non riassumibili in uno standard generazionale.


Non dico che debba arrivarci anche il commentatore da bar, ma almeno la classe politica. Per favore non parlate più ai giovani, alle famiglie, ai lavoratori, agli anziani. Parlate a ognuno.



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